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La parabola del perdono a Teatro
Lo spettacolo Settanta volte sette di Controcanto Collettivo al Teatro Nuovo di Treviglio ci insegna ad affrontare la violenza, per porre fine a un circolo vizioso.
Era l’11 settembre del 2020, quando Settanta volte sette è andato in scena, nell’ambito della rassegna Desidera Teatro Festival.
L’undici settembre è una data incastonata nella storia, e ricordare le vittime della violenza terroristica negli USA, diciannove anni fa, è certamente un dovere. Del resto, anche lo spettacolo di Controcanto Collettivo affrontava il tema della violenza.
Era, una violenza diversa: non premeditata, non cresciuta all’interno di un’organizzazione terroristica; senza spinte ideologiche, né religiose, né politiche. Era una violenza radicata in uno stile di vita, consumata durante una serata qualunque, una violenza improvvisata. Ma era sempre lei: la violenza.
Settanta volte sette è uno spettacolo contemporaneo, che racconta la degenerazione di una serata ordinaria, fra ragazzi, finita in tragedia. Un trafiletto di cronaca che ognuno di noi potrebbe leggere sul giornale o vedere amplificare a mille attraverso i media e la propaganda politica.
Proprio in questi giorni, lo vediamo nella vicenda di Willy Monteiro Duarte: Il viso sorridente del ragazzo ha assunto i contorni di una bandiera politica, scatenando altra violenza verbale, giudizi fuori controllo espletati sui social verso i colpevoli, proprio da parte di chi si riconosce nella tolleranza.
Ma, ci chiediamo mai quali sono gli effetti dei giudizi? Ci viene mai in mente che è proprio il giudizio a generare la violenza?
Settanta volte Sette a Treviglio
Un martedì, due fratelli si ritrovano a decidere come passare la serata: un dialogo stanco, inconcludente, fra due persone chiuse nella semplicità di una vita ripetitiva e piena di delusioni. Un padre assente, una madre depressa, la sorella intrappolata nella sua vita da barista, il fratello disoccupato, annoiato, privo di interessi.
Una festa con amici del quartiere sembra essere la sola cosa da fare, per lui.
Alla festa ci sarà un altro ragazzo, poco più che ventenne: Luca.
Anche Luca ha un fratello, è più grande e lo protegge troppo, lo vuole guidare, lo soffoca con il suo amore; vuole occupare a tutti i costi il posto vuoto lasciato dalla madre morta prematuramente.
Luca quella sera andrà alla festa, la stessa dove sarà presente Cristian e, così, Luca, quella sera, non vedrà il fratello più grande.
Luca non c’è più, e Cristian sta pagando per aver ucciso un giovane che nemmeno conosceva.
Passano i giorni e Cristian non accetta l’idea del carcere, non accetta di aver commesso quell’atto indegno. Quella sera, la violenza ha preso il sopravento e con l’alcol in corpo, lui non la poteva controllare. Vuole solo dimenticare.
La paura, il rancore, l’odio s’india nelle due famiglie coinvolte, così il fratello di Luca vuole che “quello” (l’imputato) marcisca in galera, vuole vendetta, e Cristian non riesce a riflettere su quello che ha fatto; ha paura vuole solo uscire dal carcere.
La perdita di un fratello causa un dolore troppo grande, grande quanto saperlo in carcere per omicidio. Dolore, rabbia, impossibilità di comprendere e accettare l’accaduto.
Il sentimento ibrido che mischia l’odio, al rancore, alla rabbia e alla sete di vendetta allontana e insieme avvicina le due famiglie coinvolte; e proprio questo sentimento nell’utopico finale dello spettacolo riavvicina il fratello della vittima all’assassino.
La drammaturgia dello spettacolo
Controcanto Collettivo imposta la regia sul montaggio per quadri scenici, una tecnica che fonda le radici nelle avanguardie del primo novecento, ma che è molto diffusa nelle giovani compagnie teatrali, spesso influenzate dal cinema e dalle serie tv.
Lo spettatore non viene assorbito nella storia ma si trova ad osservare gli avvenimenti mantenendo il suo ruolo di spettatore, come se davanti a sé non ci fosse un palcoscenico, ma uno schermo televisivo. Ne scaturisce il distanziamento brechtiano, amato dal drammaturgo e regista tedesco proprio per la possibilità di offrire allo spettatore una presa di posizione obiettiva, distaccata dal pathos che si crea in scena.
La scelta drammaturgica e di regia comunica, quindi, una presa di distanza da parte degli autori sulla vicenda, gli autori non esprimono la loro posizione e non patteggiano; non esaltano la vittima, non compatiscono i famigliari e non si mettono dalla parte del carnefice.
Lo spettacolo mostra una storia come tante, una storia dai contorni costantemente attuali, e riflette su questioni che stanno al disopra delle parti. Esplora le radici della violenza, descrive gli ambienti dove si genera e dove si consuma. Cerca di ricostruire i contesti in cui si radica la violenza, dove giocano un fattore predominante il vuoto famigliare, la mancanza di valori e la scarsa scolarizzazione.
Il valore di saper perdonare settanta volte sette
Il titolo dello spettacolo è ripreso dal versetto 18-22 del Vangelo secondo Matteo, in cui Pietro domanda a Cristo quante volte dovrà perdonare un torto fattogli dalla stessa persona; Gesù risponde:
Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Da Monastero di Bose
Settanta volte sette è uno spettacolo forse utopistico, che cerca di restituire dignità alla parola perdono; perché perdonare non è impossibile, né sbagliato, né comodo.
Perdonare non è da vigliacchi, è un traguardo che si raggiunge solo dopo un lungo lavoro interiore, dopo un percorso che porta a vedere chiaramente le cause che portano ad un atto estremo. L’offeso guarda in faccia la realtà ed esamina i fatti, cerca le cause e si sveste del suo dolore per calarsi nei sentimenti dell’offensore.
Io non posso dire se saprei mai intraprendere questo percorso, ma questo spettacolo mi ha insegnato a guardare le cose in maniera diversa; l’ho visto nell’omicidio di Willy, l’ho visto in tante altre occasioni: il giudizio facile, il dito puntato, la rabbia, le sentenze e l’ipocrisia di chi “si crede giusto” sono sempre dietro l’angolo.
La riflessione che pone Settanta volte sette non riguarda la giustificazione o la legittimazione della violenza, questo sia ben chiaro, ma prova a spronare “gli altri” a cercare le cause e i motivi che si nascondono dietro a un atto estremo, prima di puntare il dito, .
Ciò che cerca di dire lo spettacolo è: non gridiamo alla giustizia in nome di un volto simpatico, avvaliamoci sempre del diritto di sapere perché esistono le vittime e i carnefici.
Drammaturgia originale: Controcanto Collettivo
Ideazione e regia: Clara Sancricca
Con: Federico Cianciaruso, Riccardo Finocchio, Martina Giovanetti, Andrea Mammarella, Emanuele Pilonero, Clara Sancricca
Voce fuori campo: Giorgio Stefanori
Scenografia e costumi: Controcanto Collettivo con Antonia D’Orsi
Disegno luci: Cristiano Di Nicola
Foto di scena: Simone Galli | Atlas fotografie
Organizzazione: Gianni Parrella
Lo spettacolo è andato in scena l’11 settembre al TNT di Treviglio nell’ambito della rassegna Desidera Teatro Festival.
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